Scompenso Cardiaco


 

La gestione della cronicità in Italia: Focus sullo scompenso cardiaco

Il dolore toracico è uno dei più comuni e complessi sintomi per i quali i pazienti afferiscono ai dipartimenti di emergenza; secondo alcuni studi pubblicati esso è causa del 5-7% del totale degli accessi. Il dolore toracico comprende un’ampia varietà di sensazioni, da quelle meno gravi a quelle che sono ad alto rischio per la vita del paziente, ma solamente una bassa percentuale dei pazienti che si presentano con questo sintomo ha una sindrome coronarica acuta. È quindi evidente l’importanza di definire le procedure cliniche più idonee all’identificazione delle situazioni associate ad elevata morbilità e mortalità. Tali procedure devono essere caratterizzate da efficacia nella stratificazione dei pazienti a rischio e rapidità di esecuzione, per avviare i pazienti con sindrome coronarica acuta in tempi utili (30’-6ore dall’esordio del dolore) al trattamento di riperfusione più opportuno in Unità di Terapia Intensiva Cardiologica ovvero escludere l’origine coronarica del dolore e avviarli su altri percorsi diagnostici o dimetterli in tempi contenuti (12-24 ore).

 

Update su “Scompenso cardiaco”

Lo scompenso cardiaco in Europa ha una prevalenza nella popolazione generale del 2-3 % mentre nella fascia d’età 70-80 anni: 10-20%.  Nelle fasce d’età più giovani invece, la prevalenza maggiore si riscontra nel sesso maschile (per maggiore incidenza di cardiopatia ischemica) e per il 50% in età avanzata.

Nella popolazione generale si osserva un aumento di prevalenza ed incidenza di scompenso cardiaco a causa di invecchiamento della popolazione generale, aumento della sopravvivenza dopo sindrome coronarica acuta, successo della prevenzione secondaria

Le innovazioni che si possono riscontrare in tema di cura dello scompenso cardiaco sono sicuramente nell’assessment, la terapia farmacologica (stadio C) con ACE-I, antagonisti del recettore dell'angiotensina II, diuretici, beta-bloccanti, digossina, idralazina-isosorbide dinitrato.

Per quanto concerne la terapia non farmacologica (stadio C) possiamo riscontrare resincronizzazione cardiaca, fisiochinesiterapia, telemonitoring, mentre per ciò che concerne lo scompenso cardiaco acuto abbiamo la ventilazione meccanica non invasiva, Nesiritide, Antagonisti del recettore della vasopressina, inibitori delle fosfodiesterasi.

Infine, in casi di scompenso cardiaco terminale (stadio D),  Ultrafiltrazione, supporto circolatorio meccanico, trapianto cardiaco e trapianto di cellule staminali.

 

ll continuum cardiovascolare: dal paziente iperteso al paziente con scompenso cardiaco

La crescita dell’incidenza e della prevalenza delle patologie cardio-cerebrovascolari e metaboliche e della relativa  mortalità  delinea  un  problema  di  salute  pubblica,  con  un  impatto  economico  in  termini  di consumo di risorse diagnostico‐terapeutiche, in un contesto sempre più caratterizzato dalla scarsità delle risorse. Serve quindi l’implementazione di processi di disease management, volti all’appropriatezza di cura, efficacia, aderenza, continuità terapeutica e costo-efficacia. Le cure primarie e la medicina di base assumono  un  ruolo  cruciale  nella  prevenzione  cardiovascolare  e  nel  miglioramento  della  salute  dei cittadini.

 

 

Epidemiologia dello scompenso cardiaco

In materia di scompenso cardiaco, nel terzo millennio si sono notate le seguenti caratteristiche:

•       Prevalenza ed incidenza crescente

•       Grave limitazione dell’attitudine lavorativa

•       Gravoso carico assistenziale in termini di diagnostica, farmaci ed ospedalizzazioni

•       Elevata morbilità e mortalità

•       Elevato costo economico e sociale

Ma soprattutto:

•       Prevalenza: 5.000.000 circa di soggetti; 0.4/2.7%; 6/10% (tra 65 e 90 anni)

•       Incidenza: 400/700.000 nuovi casi l’anno

•       Prevalenza ospedalizzazioni: 1 milione/anno (circa 250.000 negli anni ‘90)

•       Mortalità: 80% uomini, 65% donne a 6 anni dalla diagnosi

 

Trattamento non farmacologico dello scompenso cardiaco

Insieme con i trattamenti farmacologici, chirurgici ed invasivi di altro genere, alcuni dei quali ben codificati dalle linee-guida, esiste come opzione concreta quella rappresentata dai trattamenti di sostituzione dell'emuntorio renale (ultrafiltrazione, emofiltrazione, emodiafiltrazione e dialisi), che sono da prendere in considerazione in pazienti  selezionati ed in particolari condizioni cliniche; attualmente le linee-guida europee considerano questi trattamenti  indicati rispettivamente, nello scompenso cardiaco acuto nei pazienti con grave disfunzione renale e ritenzione idrosalina refrattaria alla terapia e nelle forme croniche per trattare il sovraccarico idrico (edema polmonare o periferico) refrattario alla terapia diuretica.

L’altro trattamento non farmacologico in uso  è il supporto ventilatorio non invasivo (NIV) indicato dalle linee-guida come presidio da attuare in fase precoce nel caso di instabilizzazione dello scompenso cardiaco con quadro di edema polmonare acuto, oltre che nel trattamento delle sindromi da apnea notturna ostruttiva, che spesso si associano nelle fasi croniche dello scompenso cardiaco avanzato .

Non da ultimo occorre ricordare tra le terapie non farmacologiche le strategie gestionali, che sempre di più negli ultimi anni hanno acquistato importanza  poiché la maggior parte degli studi effettuati hanno dimostrato l’efficacia nel ridurre il numero delle riospedalizzazioni per scompenso cardiaco, purchè sia attuata la continuità assistenziale ed una corretta educazione del paziente. A questo proposito risultano particolarmente efficaci le strategie che vedono l’intervento effettuato da parte della professione infermieristica.

 

 

Tavola Rotonda: Il Management dello scompenso cardiaco

La tavola rotonda tra i relatori andrà a delineare il cosiddetto “disease management”, ovvero un approccio multidisciplinare al trattamento delle malattie croniche che coordina la gestione complessiva dell’intero percorso di una determinata patologia all’interno di tutto il sistema di erogazione dei servizi sanitari. Fondamentale è una base di conoscenze che riguardano la struttura economica, i dati epidemiologici ed il contesto sociale di una malattia e linee guida nelle quali, per ogni singola parte del processo, sia previsto il tipo di trattamento da implementare, chi lo dovrà erogare ed in quale contesto dovrà essere effettuato.

Importante  è anche un sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie che abolisca i tradizionali confini tra le varie specialità ed istituzioni. In questo tipo di modello il paziente non viene considerato come un fruitore di prestazioni singole erogate da vari professionisti del sistema sanitario in una serie frammentata di appuntamenti, ma come una entità unica per tutto il decorso clinico della sua malattia. Il disease management è particolarmente adatto a malattie con ampia base di conoscenze, che si prestano bene allo sviluppo di protocolli basati sulle evidenze e nelle quali è possibile misurare i risultati degli interventi introdotti. Altri elementi importanti, dal punto di vista gestionale, per adottare una strategia di questo tipo sono: l’elevata incidenza e prevalenza della malattia nel contesto locale, i costi elevati del suo trattamento, le esigenze di miglioramento delle linee guida, la necessità di integrare linee guida e sistemi tra territorio ed ospedale, la mancanza di certezze sulla migliore pratica da seguire e la necessità di migliorare la prognosi del paziente.

 

Diagnosi clinica e strumentale dello scompenso cardiaco

Non c’è un singolo test diagnostico per lo scompenso e la diagnosi è prevalentemente clinica. I meccanismi responsabili della ridotta tolleranza allo sforzo non sono completamente chiariti. E’ comunque evidente che vi è una scarsa correlazione tra le misure della funzionalità cardiaca e il tipo e l’entità dei sintomi. Pazienti con frazioni di eiezione molto basse possono essere asintomatici, mentre altri, con funzionalità sistolica del ventricolo sinistro conservata, possono essere grandemente limitati dai sintomi. I motivi di questa scarsa correlazione non sono ben chiariti, ma possono essere in parte dovuti ad alterazioni della distensibilità ventricolare, danno valvolare e/o pericardico, aritmie, anomalie della conduzione, patologia del ventricolo destro, ecc. Oltre a ciò, soprattutto nei pazienti più anziani, fattori non cardiaci possono avere un ruolo rilevante: copatologie, alterazioni della fisiologia muscolare e neuro umorale, ecc. Può essere utile ricordare che, con rare eccezioni (es scompenso da valvulopatia poi corretta chirurgicamente, scompenso da miocardite infettiva, poi guarita completamente, ecc) la scomparsa di segni e sintomi in seguito a trattamento farmacologico e non farmacologico non comporta anche la scomparsa della patologia. In altre parole, con rare eccezioni, chi ha avuto una diagnosi di scompenso, rimane affetto da scompenso (e necessita del trattamento del caso) anche quando sono scomparsi segni e sintomi.

I test di laboratorio hanno lo scopo di individuare patologie che possono causare/peggiorare lo scompenso Gli esami da eseguire inizialmente in tutti i casi sono - Emocromo - Esame urine - Elettroliti  - Creatinina (e stima del filtrato glomerulare con le apposite formule: MDRD – modifica della dieta in malattie renali o Cockroft-Gould) - Glucosio (e emoglobina glicata se opportuno) – aspartato-trasfertasi; alania-trasfertarsi – ormone tireostimolante - Colesterolo totale, lipoproteine a bassa intensità e trigliceridi.

 

 

Terapia Farmacologica dello scompenso cardiaco

Esistono evidenze per l’uso di specifici farmaci antitrombotici in pazienti con recente sindrome coronarica acuta rispetto a pazienti con evidenza di malattia cardiovascolare. Le raccomandazioni che riguardano la terapia antitrombotica in pazienti con recente scompenso cardiaco acuto si applicano al periodo post - dimissione e si estendono per l’anno successivo.

Per quanto attiene la scelta della terapia antitrombotica in pazienti con evidenza di malattia cardiovascolare, l'unico antiaggregante che ha effettuato un confronto diretto con aspirina è stato clopidogrel. Gli studi hanno documentato una sostanziale equivalenza dei due trattamenti per quanto attiene la mortalità totale, l’incidenza di ictus (ischemico ed emorragico) non fatale e di sanguinamenti maggiori. Esiste, inoltre, una minore incidenza di infarti miocardici non fatali nel gruppo trattato con clopidogrel. I pazienti con infarto miocardico anteriore esteso hanno un aumentato rischio di sviluppare un trombo intraventricolare con elevato rischio embolico conseguente (cerebrale e/o periferico). Recenti studi suggeriscono che la percentuale di trombosi intraventricolare in pazienti con infarto anteriore esteso è mediamente del 15% circa, ma può arrivare fino al 27% in caso di infarto anteriore esteso con compromissione della frazione di eiezione (FE < 40%). Risultati di studi clinici e metanalisi suggeriscono che il beneficio derivante dall’aggiunta del warfarin all’aspirina in pazienti con infarto miocardico anteriore esteso non sottoposti a posizionamento di stent possa essere superiore al rischio di complicanze emorragiche. Tale vantaggio è particolarmente evidente nel sottogruppo di pazienti con dimostrazione della presenza di trombosi intraventricolare sinistra. La scelta e la durata della terapia antitrombotica dopo PCI dipende dallo specifico contesto della procedura (acuto vs in elezione), dall’eventuale posizionamento di stent e dal tipo di stent impiegato. Per quanto attiene la durata ottimale della duplice terapia antiaggregante in pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica con posizionamento di stent, le evidenze disponibili non hanno evidenziato alcun vantaggio nel prolungare oltre il periodo di 12 mesi tale trattamento. Infine, approssimativamente il 70% dei pazienti con scompenso cardiaco secondario a disfunzione ventricolare sistolica ha una genesi ischemica di tale cardiopatia.

 

I grandi trials

La prima novità è stata il 5%, e non più >20% come formulato nelle precedenti linee guida, caratterizzati da fattori di rischio multipli o con singoli fattori di rischio marcatamente aumentati o con diabete mellito di tipo 2 o di tipo 1 con microalbuminuria. Altra novità è stato l’inserimento della Sindrome Metabolica tra i fattori di rischio cardiovascolari. Sulla base di queste premesse è stato messo a punto un nuovo programma per la valutazione del rischio cardiovascolare, chiamato SCORE (Systematic Coronary Risk Evaluation), nel quale è stata considerata la nazionalità del paziente e l’eterogeneità nella mortalità cardiovascolare nelle diverse popolazioni europee. In questo modo, il nuovo algoritmo di calcolo del rischio può includere, sulla base delle considerazioni del clinico, nuove importanti variabili legate maggiormente alle caratteristiche oggettive del paziente e lo specialista può programmare meglio il tipo e l’intensità dell’approccio terapeutico. Sono stati presentati gli interessanti risultati di due studi clinici, l’EUROPA e il CHARM, che hanno evidenziato rispettivamente i benefici della terapia con perindopril nei pazienti affetti da malattia coronarica stabile (CAD) e del candesartan nei pazienti affetti da scompenso cardiaco (CHF). Lo studio EUROPA (European trial on reduction of cardiac events with perindopril in stable coronary artery disease), ha evidenziato che, in una popolazione di 12.218 pazienti, con un range di età media da 26 a 89 anni, a basso rischio cardiovascolare, il perindopril, un ACE-inibitore “long-acting”, aggiunto alla terapia ottimale con beta-bloccanti, Acido acetilsalicilico,  e statine, determina una riduzione del rischio relativo dell’end point primario combinato (mortalità cardiovascolare, infarto del miocardio ed arresto cardiaco) del 20% rispetto al gruppo placebo.

 

Lo studio CHARM: le evidenze

All’interno dello studio accanto alle terapie standard per lo scompenso cardiaco, veniva aggiunto candesartan oppure placebo. I pazienti, sia quelli del gruppo in trattamento attivo, sia quelli del gruppo placebo, sono stati suddivisi in pazienti con buona compliance (pazienti che assumevano più dell' 80% delle medicine prescritte) e pazienti con poca o scadente compliance (quelli che assumevano l'80% o meno dei farmaci prescritti). Dopo aver escluso 187 pazienti per mancanza di informazioni e aver aggiustato i dati per vari fattori di confondimento (fattori demografici, severità della malattia, storia di fumo, numero dei farmaci assunti, ecc.) si è potuto constatare che una buona aderenza alle terapie prescritte era associata ad una riduzione della mortalità in tutti i pazienti (HR 0,65: IC95% 0,57-0,75). Questi risultati erano indipendenti dal fatto che i pazienti assumessero candesartan (HR 0,66; IC95% 0,55-0,81) o placebo (HR 0,64; IC95% 0,53-0,78). Gli autori dello studio concludono che una buona aderenza al trattamento è associata ad una riduzione del rischio di morte indipendentemente dal trattamento assegnato; comprendere quali fattori possono influenzare la compliance è importante per effettuare interventi per migliorarla.